19 Mar, 2024

Articolo p. Adolfo

ecco un ottimo articolo sulla pastorale dei dieci comandamenti,
scritto da P. Adolfo Scadurra, che predica le dieci parole a Treviso da molto tempo...
 
 

IL DECALOGO NELLA CATECHESI


Perché puntare sui dieci comandamenti?

P. Adolfo Scandurra. o.c.d.


Nell’ultimo decennio si è diffusa in tutto il territorio nazionale un’esperienza di catechesi per giovani e adulti, centrata sui dieci comandamenti, che sta avendo grande successo di numeri ma soprattutto di “impatto” benefico nella vita di molti persone dalle storie e provenienze più svariate. Si tratta di giovani in ricerca, di persone che vengono dall’area grigia della fede generica e intimistica, di adulti “impegnati” che scoprono di dover rifondare la loro fede su basi più vere, di coppie che cercano un nuova partenza per la loro storia insieme, di uomini e donne che vengono dall’ateismo militante o dall’indifferentismo edonistico e che faticano a trovare una propria collocazione nella Chiesa.
 
Questo fenomeno fa riflettere … nella nostra società secolarizzata non è facile aggregare giovani e adulti per una catechesi settimanale per tempi così lunghi. Le catechesi settimanali durano un anno e, all’interno del percorso, sono previsti tre fine settimana intensivi di ritiro. Soprattutto è l’argomento che sconvolge: proprio i comandamenti aggregano! Ovvero la lista delle proibizioni, il lato oscuro (pesante) della fede, la parte morale, le esigenze di Dio. Strano! Tutto sembra cospirare contro ogni forma di limitazione, la gente sembra intollerante nei confronti di tutto ciò che mette barriere al comportamento e ai desideri, e gli uomini di Chiesa dovrebbero mettersi a proclamare la legge di Dio? Ce n’è abbastanza per incuriosirci.
 
Se andiamo a vedere la genesi di questa esperienza, troviamo un inizio modesto ed imprevedibile. Un vice parroco di Roma, don Fabio Rosini, si vede assegnare un gruppo di una decina di ragazzi del dopo cresima. Con loro e per loro, nel 1993, cominciano a formarsi i primi abbozzi di queste catechesi che diventano un percorso ancora incompleto ma avvincente. Poi uno dei ragazzi ha una intuizione: perché insistere sempre sulle stesse persone? Si può proporre lo stesso percorso ai propri amici! Così di anno in anno, a partire del 1993, si svolgono questi corsi sui dieci comandamenti che richiamano persone da sempre più lontano. La modalità di diffusione è interessante: mai un lancio pubblicitario, un avviso pubblico o qualcosa di simile ma solo il “passa parola”. La faccia contenta di chi li ha già fatti e la promessa che “lì si fa sul serio” è il depliant più accattivante dell’esperienza. Come si sa, poi, Roma è il centro della cattolicità e per un motivo o per l’altro ci passano molti sacerdoti. Così prima alcuni parroci romani poi altri presbiteri, secolari e religiosi, sono venuti in contatto con queste catechesi e ne sono rimasti colpiti. Don Fabio ha creduto nella “riproducibilità” dell’esperienza e non ha sbagliato. Sacerdoti con temperamenti, formazione, appartenenze molto diverse hanno potuto suonare con strumenti diversi lo stesso spartito nei luoghi più vari: la grande parrocchia di Roma o Milano, il santuario di Napoli, la chiesa conventuale della cittadina di provincia o addirittura del piccolo paese isolato. Ormai quasi tutte le regioni sono interessate da questo fenomeno e hanno visto nascere qualche gruppo dei dieci comandamenti. Attualmente i gruppi attivi delle catechesi sui dieci comandamenti (da adesso li chiamerò semplicemente comandamenti) sono presenti in almeno 40 diocesi di tutta Italia. La fase espansiva è ancora in svolgimento ma non è cambiato il metodo: anche tra i sacerdoti vale il “passa parola” e non ci sono manuali, libri o schemi. Il rapporto personale di amicizia, la frequentazione sono la via per entrare nel giro (apertissimo) dei presbiteri che fanno queste catechesi. Occorre aggiungere un dato importante che è entrato a costituire la struttura essenziale di questa esperienza: l’apporto laicale. In tutti i gruppi, se si riesce, il presbitero è affiancato da una coppia di sposi che lo aiutano nelle catechesi, nelle esemplificazioni. La loro presenza e il loro intervento è di notevole efficacia e molto significativi di una comunione tra le vocazioni. Il messaggio è questo: tutti i cristiani sono chiamati ad evangelizzare.
 
Così è accaduto nel caso di Treviso. Dei religiosi carmelitani della provincia veneta che avevano la conventualità  a Roma sono venuti in contatto con queste catechesi attraverso un giovane della loro parrocchia che con entusiasmo li ha invitati. Hanno conosciuto don Fabio e hanno cominciato a frequentarle; poi arriva il provvidenziale trasferimento a Treviso e il desiderio e il tentativo di partire con i comandamenti nel 2002 prima a Padova poi a Treviso. Da quell’anno le catechesi dei comandamenti vengono reiterati nel convento dei carmelitani di Treviso senza interruzione da nove anni con gente sempre nuova e con gruppi più numerosi. Allo stato attuale sono circa 200 i partecipanti stabili che arrivano ogni anno alla fine del percorso.
 
Cerchiamo di entrare nei fatti e di cogliere il perché di questo interesse per i comandamenti. Quali innovativi contenuti vengono proposti? La situazione di partenza è abbastanza infelice. La catechesi tradizionale, quella improntata al tanto disprezzato “nozionismo”, è scomparsa e molti non sanno neanche elencare i dieci comandamenti in modo completo e ordinato. L’effetto è che, in merito, anche molti cristiani praticanti hanno in testa una nebulosa informe di idee, preconcetti e convinzioni scoordinate. I non praticanti invece partono da zero … non hanno neanche quel briciolo di informazioni precise che possono fare da base di partenza. La cosa che accomuna tutti, praticanti e non praticanti, è la sensazione profonda di disagio che accompagna la parola “comandamenti”: per gli uni è fonte di sensi di colpa, di un “non sentirsi mai a posto” che cresce quanto più ti impegni seriamente, per gli altri è l’emblema di una Chiesa oppressiva e retrograda. Tanto vale allora trattare tutti allo stesso modo: partire da zero e non dare per scontato niente. Che cosa siano veramente i comandamenti nessuno lo sa. Bisogna partire con una bella rincorsa per saltare l’ostacolo dei pregiudizi: infatti le prime catechesi non hanno nulla a che fare con i comandamenti. Sembrano le più “sbarazzine” e leggere (sono introduttive!) ma sono quelle che nascondono tesori di sapienza serissimi che verranno rivelati e capiti solo alla fine del percorso. Il primo approccio con i convenuti mira a toccare il tasto della incompiutezza che avverte ogni uomo sincero con se stesso, per fare risuonare la nota del bisogno di salvezza, per entrare nello spazio intimo che per molti rimane mai condiviso o addirittura  inesplorato. L’intento è di far capire che in quella sede non si propineranno dotte conferenze ma verranno annunciate parole che non rimangono senza conseguenze nella vita di chi ascolta. Per ascoltare bisogna scegliere di ascoltarle, riconoscersi bisognosi di sapienza, curiosi di cose che non si conoscono. Dopo questa preparazione si passa parlare dei veri e propri comandamenti con alcuni precisazioni cha hanno un serio fondamento esegetico. Qual è il primo comandamento? Quello dell’idolatria! Si scopre invece che invece è Es 20, 2: la memoria di un fatto di liberazione è la chiave di lettura per i comandamenti! Partiti con la chiave giusta si può affrontare il comandamento dell’idolatria. È forse un Dio con i complessi di inferiorità che vuole essere messo al primo posto? Perché non lo è già? Si scopre allora che il comandamento non è a suo vantaggio ma a nostro vantaggio. Siamo idolatri perché cerchiamo la vita (quindi divinizziamo) esagerando l’importanza di cose e persone che non ci possono dare quello che chiediamo. Questo è fonte di infelicità per noi e di violenza e incomunicabilità nelle relazioni con gli altri. Gli esempi di vita vissuta profusi a piene mani rendono queste catechesi avvincenti e provocatorie. Difficile non identificarsi con questa o quella situazione presa dall’esperienza personale, narrata come testimonianza o come un vissuto reale! Scopri di essere un idolatra al di sopra di ogni sospetto. Quindi, anche tra una risata e l’altra di esempi talvolta grotteschi o ironici, il messaggio arriva chiaro e forte: il primo comandamento sull’idolatria riguarda proprio te! Per tutti i comandamenti si procede con lo stesso tono: si scavalca l’interpretazione semplificata (pur vera) del comandamento di Dio e ne si annuncia il significato profondo, spesso sorprendente. Il secondo comandamento non è solo la proibizione di bestemmiare,  è un invito a invocare il nome di Dio con verità, ad entrare in rapporto totalizzante con Lui. Il terzo comandamento non è solo l’imperativo di andare a messa la domenica, ma l’annuncio che esiste il vero riposo che non dipende dalle circostanze favorevoli ma dall’amare e conoscere la volontà di Dio. Il quarto comandamento non impone di credere che i genitori hanno sempre ragione ma l’annuncio che esiste una Paternità divina che dà senso e dignità ad ogni paternità terrena. Qui il percorso arriva ad una svolta. Parlando delle insufficienze e dei limiti dei genitori si comincia a parlare di una vita nuova, soprannaturale: la vita dei figli di Dio. È una vita che non conosciamo, ma di cui abbiamo un vitale bisogno e un profondissimo e inespresso desiderio. Il quinto comandamento è la descrizione dell’essenza di questa nuova vita, descrive quali sono gli atti tipici di questa nuova natura: gli atti dell’amore. Non uccidere quindi non si riferisce solo al togliere la vita fisica ma, secondo l’esegesi di Gesù, a quel santo debito di amore che tutti abbiamo nei confronti di tutti, compresi i nostri nemici. Poi il decalogo insegna come questo amore si concretizza: si tratta di amare con il corpo (sesto comandamento) e di amare con beni (settimo comandamento). L’ottavo comandamento invita, in questa prospettiva, a considerare in modo più completo ed esistenziale il problema della verità: non si tratta solo di dire la verità ma di essere veri, dare testimonianza con tutto ciò che siamo e facciamo a favore della bontà e dell’amore di Dio Padre. Gli ultimi due comandamenti, che a molti sembrano una specie di appendice trascurabile, diventano la chiave di volta di tutto il percorso, unificandosi nel comandamento non desiderare. È il comandamento che ci inchioda tutti ad un problema insormontabile: anche qualora riuscissimo a controllare i nostri comportamenti per conformarci alla legge, il nostro cuore smetterebbe di desiderare il male? Come si esce da questo dramma che san Paolo ha espresso magnificamente in Rm 7? Occorre chiedere il cuore nuovo, il cuore di carne che Dio ha promesso per bocca del profeta Geremia. L’ultimo comandamento apre gli ascoltatori all’opera santificatrice dello Spirito, al desiderio nuovo di una vita santa. Al termine dell’itinerario tutti vengono invitati ad un ritiro della durata di una settimana, che ha come argomento i sette segni del vangelo di Giovanni. Questo ritiro rappresenta il fondamentale annuncio della buona notizia e quindi il passaggio dall’Antico a Nuovo Testamento. Ma questa è un’altra storia …
 
Volendo sintetizzare, ovviamente schematizzando, la dinamica del percorso si può descrivere così: chi ascolta arriva con un bagaglio di cose già sapute e di convinzioni acquisite. Lo si invita a mettersi in ascolto reale chiedendo la disponibilità a sospendere la propria visione delle cose. Chi accetta di collocarsi in questo atteggiamento si sente annunciare un modo di vivere e di essere bellissimo e desiderabile ma, al tempo stesso, molto distante dall’effettiva esperienza di ognuno. Questo è il paradosso di questa predicazione (che poi è il paradosso del cristianesimo): mentre la legge demolisce ogni presunzione di giustizia, ogni pretesa farisaica di “auto-redenzione” e quindi, ci si scopre “messi peggio” di quello che si credeva, al tempo stesso si fa una liberante esperienza di autenticità. La legge di Dio distrugge la falsa coscienza che ci aliena dalla nostra vita reale, apre gli occhi, illumina sulla propria condizione: scopro di essere bisognoso di salvezza e povero ma conosco il punto di partenza, quindi mi posso aprire, mettere in movimento alla ricerca del mio Redentore. La gente che frequenta queste catechesi è unanimemente segnata da questi sentimenti contrastanti di pochezza e di letizia al tempo stesso. Questo è il nocciolo della novità di questa predicazione: la legge come fonte di liberazione e non elemento ansiogeno che alimenta il dinamismo, radicatissimo, dei sensi di colpa. Non bisogna dimenticare una cosa fondamentale: la legge è preambolo della fede, pedagogo che conduce a Cristo, premessa necessaria di ogni annuncio del Vangelo. Senza Antico Testamento non si può accogliere adeguatamente il Nuovo Testamento! Cosa accade se dissociamo la legge dal vangelo? Abbiamo, da un lato, una legge (magari “modernizzata”) proclamata in modo affliggente e moralistico e dall’altro un vangelo consolatorio, sentimentale e, in fondo, che non cambia la sostanza della vita. Al termine del percorso la conclusione è sorprendente. Dopo un anno di ascolto i partecipanti scoprono che i dieci comandamenti, letti in questo modo e con questa profondità, non parlavano del cristiano ma di Cristo. Erano, di fatto, la descrizione del suo modo di essere: Egli ha dato pieno compimento alla legge e solamente a partire da questo compimento si può capire dove tendeva tutto l’Antico Patto. Egli è il figlio che ama Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze; Colui che invoca il nome di Dio con verità perché si riversa nel rapporto con Lui senza residui; il mite che si riposa nella volontà del Padre; l’uomo felicemente uscito dall’egoismo infantile della nostra natura e che vive per dare e non per ricevere; il fratello pronto a morire per te, che dà la propria vita e prende su di sé ciò che è mortifero nell’altro; lo sposo fedele fino alla morte; colui che non ci prende nulla, anzi ci rende ricchi con la sua povertà; il testimone verace della verità a proposito del Padre che smaschera la menzogna  del Maligno; colui che desidera ciò che desidera il Padre. La prospettiva è completamente diversa da quella riduttiva a cui tendiamo: le regole minimali per un comportamento socialmente e religiosamente accettabile, uno standard da raggiungere con le proprie forze, una idealità da mettere in pratica in una gelida solitudine. I comandamenti sono invece un’esplosione di vita vera, il desiderio che giace inespresso nel cuore di ogni uomo, un potente richiamo alla vita bella, alla vita dei figli di Dio. Presentati in questo modo, in fondo sono la descrizione della vita di grazia: conoscendola, soffri perché ti accorgi di non averla ma godi perché hai trovato quello che da sempre stavi cercando. Si tratta di accaparrarsela, di trovare il dispensatore amorevole e misericordioso di questa vita. Questo percorso in fondo non è altro che un invito ad entrare nella Chiesa di Cristo, ad abitare dove il “buon contagio” della redenzione, per dirla con C.S. Lewis, può prendere tutta la vita e trasformarla.
 
Fin qui arriva la catechesi sui dieci comandamenti. Di più non le si può chiedere. In molte occasioni gli ascoltatori vengono avvisati dei limiti di questa esperienza. Nonostante il ritmo intensivo (si tratta di una catechesi settimanale per un anno) non si va oltre l’intento introduttivo. Neanche la novità del linguaggio o della lettura ci deve far dimenticare che siamo nell’ambito dell’Antico Patto: la legge non è fine a se stessa, è il preludio e la preparazione del Nuovo Patto. Chi ha fatto questo percorso non può presumere di aver capito che cosa è il cristianesimo né di avere una formazione cristiana. Mancano ancora molti elementi per poter parlare di formazione cristiana: manca la dimensione sacramentale perché non si parla dei sacramenti, manca la dimensione comunitaria perché tutto è centrato sull’ascolto individuale, manca una scuola di preghiera, indispensabile per imparare la grammatica dei dialogo con Dio. I momenti di condivisione e di interazione si limitano a pochissimi lavori a piccoli gruppi su un questionario assegnato. L’ascoltatore è passivo dall’inizio alla fine. Questa scelta metodologica ha un preciso intento: insegnare l’ascolto e la riflessione interiore. Molti raccontano che le catechesi hanno un effetto di “rilascio prolungato”, funzionano come un infusore per tutta la durata della settimana che porta ad una profonda revisione di vita. Chi predica non nasconde, anzi sottolinea, i limiti di tutto questo. Dopo la pars destruens occorre cominciare la pars construens: non basta lasciarsi mettere in crisi o vivere un’esperienza forte di annuncio.
 
E dopo i comandamenti? Alla fine del percorso, che rappresenta un forte e allettante invito a intraprendere il cammino dell’esperienza cristiana, ci si trova davanti un bivio inevitabile: continuare nella formazione o fermarsi. La posta in gioco è molto alta. La seconda ipotesi, magari fondata sull’illusione di sapere molte cose e di aver avuto un’esperienza forte, è pericolosa.  Senza una formazione positiva e sistematica, allo stupore iniziale può subentrare lo scoraggiamento o, peggio ancora, il disincanto e la delusione fino all’incredulità. Davanti alla difficoltà di trovare una strada adeguata per continuare nella formazione c’è poi il rischio di voler tornare indietro e rifare il corso dei comandamenti. Questa opzione è fermamente proibita: si rischia di ingenerare un estetismo religioso, una ricerca sterile del bello che non cambia la vita, anzi questo crea una falsa coscienza di sé, priva di realismo e di vigore vitale. L’invito pressante fatto a tutti alla fine del corso è di cercare nella Chiesa, cominciando dagli ambiti più vicini e consueti (parrocchia oppure movimenti/comunità già frequentate), un ambiente formativo in cui poter continuare quello che i comandamenti hanno iniziato. D’altro canto, è anche richiesto in modo fermo a tutti i sacerdoti che intraprendono la predicazione dei comandamenti di assumersi seriamente in prima persona la responsabilità di formare coloro che, avendo finito il percorso, chiedono una continuazione. Ognuno, nel proprio ambito e con i propri carismi, deve offrire (senza monopolizzare) possibilità praticabili di formazione cristiana. C’è bisogno di continuità e di stabilità: ogni discepolo del Signore deve avere una “casa” in cui riconoscersi e abitare spiritualmente, per poter crescere e maturare nella fede. Naturalmente il primo ambito è la parrocchia, ma non solo.  
 
Un altro limite sta nel fatto che gli ascoltatori sono passivi, manca il feedback che permette di “correggere il tiro”, personalizzare e adattare il messaggio alla concreta situazione del destinatario della catechesi. I grandi numeri, da questo punto di vista, sono un intralcio non da poco di cui essere coscienti. Bisogna però dire che la massa anonima che comincia il corso, col progredire del cammino e, soprattutto, con i fine settimana di ritiro, evolve velocemente. L’intensità dell’esperienza favorisce il nascere di legami di amicizia personali e di gruppo e la crescita di un certo senso di appartenenza spontaneo e affezionato al luogo e alle persone attori di queste catechesi. Da questo entusiasmo nasce l’invito per altri a frequentare il nuovo corso che ciclicamente si ripropone.
 
Ci rimane da chiederci: perché questa esperienza riscuote così tanto successo? Non è difficile leggerlo nel clima della nostra cultura occidentale. Dopo gli anni dell’ubriacatura anarcoide, della “società senza padri”, dello spontaneismo e del sentimentalismo, le persone sono disorientate. Pochi sono quelli che si prendono la responsabilità di educare, guidare, indicare una strada. Dopo essere stato considerato una conquista per la nostra società, il relativismo per molti è diventata una maledizione. Credendo di accrescere così la libertà, è invece aumentata la solitudine esistenziale. L’uomo occidentale moderno si ritrova solo, senza punti di riferimento, ad affrontare problemi e situazioni sempre più complessi, privo di un bagaglio di strumenti per affrontare la vita che una volta veniva assicurato dalla tradizione. Quindi ben venga chi dice le cose in faccia, chi le sa chiamare con il loro nome, chi sa entrare nel tessuto della vita con una chiave di lettura autorevole, chi porta una tradizione millenaria di cui tantissimi sono ignoranti ma che nessuno ignora del tutto perché fa parte del “sottofondo culturale” presente nelle persone più diverse per stile e scelte di vita. Sapere da che parte andare, entrare in possesso del “libretto delle istruzioni” della vita: ecco che cosa spinge la gente a interessarsi ai corsi sui dieci comandamenti. Un altro fattore importante di successo è il nuovo modo di sentire la dimensione dell’appartenenza. Sono lontani i tempi in cui la “sete di comunità” era fortissima. Sarà stata moda o qualcosa di più profondo, qui non ci interessa disquisire. Sembra un dato pacifico che le persone oggi hanno paura delle appartenenze forti ed esclusive. Viviamo nella “società liquida”, dove la mutevolezza è legge e la diversità è il nostro pane quotidiano. Come non sentirsi stretti in certe appartenenze che pretendono di darti una nuova natura ma si limitano a darti etichette, a legarti a gruppi e frequentazioni? Il rischio del settarismo è sempre presente anche nella Chiesa. Oggi invece pullulano nella Chiesa corsi intensivi, esperienze a termine, percorsi di catechesi riproducibili, persone e luoghi per “cristiani di passaggio”, tanto materiale free, come quello che trovi sul web: tante cose belle, anche di buona qualità, assortite e gratis, ovvero che non richiedono chissà quale obbligo o legame. Oggi la gente cerca questo e i comandamenti hanno intercettato questo sentire diffuso. È chiaro che questa nuova situazione porta con sé il rischio di favorire una detestabile “spiritualità mordi e fuggi”, il fast food della fede, ma dobbiamo riconoscere che per cominciare il metodo va benissimo. Evangelizzare oggi richiede un nuovo linguaggio e una nuova metodologia. Ciò che ha dato bellissimi frutti fino a vent’anni fa non è detto che sia l’unico linguaggio e l’unico metodo giusto. Per evangelizzare dobbiamo parlare la lingua dell’esperienza concreta, della vita ordinaria, delle cose che succedono a tutti, non la lingua di una nicchia ecclesiale. Chi si sente descritto si sente anche capito, e chi si sente capito ascolta. Semplice! Non è il linguaggio precettivo e apodittico a cui eravamo abituati da certa omiletica ma neanche il fumoso eloquio dei “progressisti” o l’astratto argomentare degli specialisti del settore. Con linguaggio semplice e diretto si propone un messaggio di sostanza: quello della Parola di Dio, eterna, sempre efficace e attuale. L’esperienza dei dieci comandamenti, per riassumere, si basa in fondo su questa certezza: Dio non smette mai di parlarci. Le Dieci Parole sono eterne non per staticità ma per vitalità: esse attendono annunciatori che si lascino toccare in prima persona, che trovino gusto nel dare la propria vita e le proprie parole per la Parola. Per questo l’autocoscienza che sta maturando tra chi predica i comandamenti non è quella di essere l’inizio di un nuovo movimento o di una qualsiasi aggregazione ecclesiale, ma semplicemente di essere presbiteri, annunciatori per vocazione e pastori per missione. La novità più bella di questa esperienza accade proprio in loro, poi si allarga a cerchi concentrici sugli altri. Per il presbitero è la scoperta/riscoperta di essere detentore affidatario di un potere enorme: una Parola che salva. La figura sbiadita e affaticata (in tutti i sensi) del presbitero nasce dalla dimenticanza di questo tesoro. Predicare i comandamenti significa riscoprirlo in prima persona: proprio tu, individuo sacerdote, hai questo carisma e questo compito in forza del sacramento ricevuto! Non hai bisogno di protesi, aggiunte o tutori di nessun tipo! Hai tutto quanto ti occorre per annunciare il vangelo ed impiantare la Chiesa adesso! Questo è il sentire che accomuna i presbiteri che fanno i comandamenti. Sarà per questo che tira aria di allegria dove si fanno queste catechesi … e la gioia del pastore diventa, inevitabilmente, gioia del gregge.